CONNESSIONI – LEGAMI – ALLEANZE

Processi di relazioni umane e di interazioni disciplinari

Questi frammenti (che ho rivisto e contaminato per le Officine Thelo) sono inseriti nella pubblicazione:

Paolo CerlatiFrancesca Crivelli (a cura di), Musicoterapia in oncologia e nelle cure palliative. Prendersi cura dell’altro con uno sguardo sistemico-complesso,

Franco Angeli, Milano, 2015

“I Sumeri scrivevano su delle tavolette che, una volta scoperte, ci hanno permesso di
studiarle. All’inizio si credeva fossero lavori di studenti, pieni di errori di calcolo: 3 x
2 = 9, 2 x 3 = 8, errori catastrofici. Cinquant’anni dopo ci si è accorti che i segni non
indicavano una moltiplicazione ma l’elevamento a potenza: 2 elevato alla terza uguale
a 8, 3 elevato alla seconda uguale a 9. Le tavole contenevano esercizi di matematica
molto sofisticati. Dipende da come si guarda alle cose; c’era senz’altro ‘conoscenza’
nelle tavole ma non c’era comprensione in chi le interpretava. Così le biblioteche non
sono l’equivalente della conoscenza scientifica, la conoscenza è nella testa di chi fa
scienza e di chi legge i libri presi nelle biblioteche. Non c’è passaggio di
informazione, perché l’informazione non esiste. È nella mia testa e posso
‘sintonizzarmi’ con un altro, come in una danza, dopo la quale ne so più di prima.
Questa è un dialogo parlato, scritto o letto [suonato e cantato NdR] con qualcuno.
L’informazione [la formazione] è il modo in cui si cambia dopo il coinvolgimento con
questo qualcuno”. (Foerster, 1987, p. 45)


Progettare


Qualsiasi forma di vita può nascere solo se c’è un terreno fertile che possa ospitare e accogliere il nuovo che
potenzialmente può crescere in un determinato ecosistema, ecosistema che si crea e si trasforma nelle
relazioni e nelle interazioni con gli organismi che ospita. Mi fa piacere pensare che questo habitat sia quello
del Corso che le Officine Thelo stanno organizzando e che sia quindi un insieme di connessioni-legami-
alleanze che mettano in moto un tragitto collettivo fatto di persone che percorrano anche strade non ancora
esplorate sia dal punto di vista paradigmatico e dei modelli, sia disciplinare c organizzativo:
“Progettare è un’avventura: un viaggio, in un certo senso. Si parte per conoscere per imparare. Si accetta
l’imprevedibile. Se ti spaventi e cerchi subito riparo in un portone – nell’antro caldo e accogliente del già
visto, del già fatto – quello non è un viaggio. È come andare a Bombay e mangiare in un ristorante italiano.
Se invece hai il gusto dell’avventura, non ti nascondi e vai avanti. Ogni progetto è una storia che ricomincia,
e tu sei in una terra inesplorata.” (Piano, 1997, p. 10)


Sicuramente non sarà un progetto di iperspecializzazione, come sta accadendo oggi in diversi contesti e in
molte discipline che isolano il proprio campo di indagine escludendo la comunicazione e la solidarietà
interdisciplinare, e quindi la relazione e l’interazione, anche in campi e in aree molto affini. Credo che la
complessità sarà il “respiro” che darà forza ed energia al futuro “sistema di relazioni” che sarà questo nuovo
progetto. Il “pensiero complesso” è un macroconcetto che a volte mi piace ‘aprire’ con alcune citazioni, una
ancora di Heinz von Foerster che riferendosi all’influenza ricevuta da Margaret Mead, di lei scrive:


“[…] personalmente ammiravo la visione panoramica presente in qualunque suo lavoro o interesse. È lei che
mi ha insegnato che è possibile conciliare una visione polifonica con un approccio scientifico, che è
possibile combinare studi sugli umani con studi sulle cellule e che non è necessario essere lo specialista di
una specializzazione; è possibile combinare studi sulla percezione con studi specifici sul calcolo
matematico.” (Foerster, 1987, p. 46)

Trovo molto bello che un fisico, cibernetico e filosofo si sia fatto ‘contaminare’ da un’antropologa, in
considerazione anche del fatto che questo accadeva almeno quarant’anni fa, oggi invece ‘la poetica della
contaminazione’ è presente in molti campi sia artistici che scientifici, sia culturali che sociali. In questa
direzione vanno anche questi due frammenti:
“Abitare la frontiera significa eludere i confini. Io ho scelto di lavorare confondendo le acque e mescolando
le discipline. Non mi interessano le differenze tra le arti e le scienze, mi interessano le similitudini. E ce ne

sono molte: le stesse ansie, le stesse attese, la stessa ricerca di regole da imparare e poi sovvertire. È la
prospettiva infinita della ricerca, che è la stessa per tutte le discipline.” (Piano, 1997, p. 257)


Così scrive Renzo Piano, e per affinità, come in un gioco di contatti, metto in relazione le sue considerazioni
con quelle di un altro architetto, Carlo Truppi che nel 2001 invita James Hillman, psicanalista junghiano, alla
Scuola di Alta Formazione di Siracusa per dialogare con lui e trovare legami, nessi, connessioni e intrecci tra
architettura e psicanalisi. Nella prefazione del testo che documenta questo dialogo, conferma le direzioni dei
frammenti precedenti:


“Si è così rafforzata la mia convinzione che molti concetti sono polivalenti, si implicano, mescolano e
integrano. E’ infatti sterile mantenere separati gli ambiti di interesse, perché una tale divisione appartiene
soltanto ai cliché, ai vizi razionalistici, ai retaggi del letteralismo. Le connessioni creano invece zone di
frontiera, in cui si aprono terre di nessuno, sentieri in attesa di essere percorsi, possibilità in cerca di nuovi
esiti. Inoltrandomi in questi sentieri, ho ancora una volta sperimentato che un confine dovrebbe essere un
punto di incontro anziché una linea di esclusione. E proprio qui, al confine, ha preso forma un’area comune
e le questioni hanno cominciato a precisarsi. Ho affrontato il compito tessendo e mettendo in relazione
posizioni diverse. Cosa che, al di là del piacere personale, è il compito prioritario e il senso di questo
lavoro: esplorare la molteplicità, non il dualismo, non la polarità, ma la pluralità.” (Truppi, 2004, p. 10)
Lo stesso autore, più avanti a conclusione del libro, nella parte intitolata “Intorno a L’anima dei luoghi” a
mo’ di chiusa dell’incontro avuto con James Hillmann scrive:
“La natura confinaria delle discipline genera aree di interesse emarginate, che si prestano a interazioni e
interferenze originali, e anche a nuove prassi. Proprio queste aree di frontiera si dimostrano spesso fertili,
al contrario di altre più ragionate ma rigide e settarie. L’affinità tra le discipline garantisce infatti
un’eredità concettuale e visiva proveniente da patrimoni linguistici diversi, che sarà possibile trasferire in
territori teorici consolidati […].

Si aggiunga che il sapere tecnico risulta efficace se è inquadrato in un
contesto più generale. Un risultato ottenuto altrove può aprire nel proprio campo nuove possibili occasioni
di ricerca. L’elaborazione teorica coinvolge più discipline e più ambiti, si serve di una traslazione
concettuale che può produrre innovazioni grazie all’ausilio di idee elaborate in altri settori disciplinari,
capaci di fornire nuovi strumenti operativi e concettuali […].

Le ‘zone di confine’ integrano interessi e mondi artificiosamente ritenuti separati, cosa che restituisce un senso ‘geografico’ del tutto particolare,
fatto dal dove si è, ma anche dalle molteplici voci presenti in ciascuno. Scopriamo così che le scelte
fondamentali non dipendono esclusivamente dall’astrazione concettuale, ma da cosa amiamo, da come
cerchiamo di proporre, da come vediamo, dalle immagini che ne conserviamo. Dipendono dagli occhi oltre
che dalla mente, e richiedono disponibilità, partecipazione emotiva, simpatia.” (Truppi, 2004, p. 109)


Queste citazioni sono delle brevi esemplificazioni per far emergere come, in aree tra loro molto diverse, è
sentita l’esigenza e la necessità di metodi e modelli di sperimentazione, formazione e ricerca polisemici,
policentrici, pluridisciplinari, multidimensionali che si contrappongono al modello dell’iperspecializzazione
monodica, monocentrica, monodiretta. Per confermare ulteriormente la direzione della “complessità” scelgo
alcune considerazioni moriniane, a mio avviso particolarmente illuminanti, in relazione ai rischi di degrado
della conoscenza quando le discipline si chiudono in sistemi autarchici e quindi i pericoli di quei progetti di
formazione che si riconoscono in questi sistemi:


“Una disciplina può essere definita come una categoria che organizza la conoscenza scientifica: essa ne
istituisce la divisione e la specializzazione del lavoro e risponde della diversità dei domini che ricoprono le
scienze. Una volta che una disciplina è stata inglobata all’interno di un insieme scientifico più vasto essa
tende naturalmente all’autonomia tramite la delimitazione delle proprie frontiere, attraverso il linguaggio
che essa si costruisce, attraverso le tecniche che essa è abituata ad elaborare o a utilizzare ed eventualmente
dalle teorie che le sono proprie. […] La fecondità della disciplinarietà nella storia della scienza non deve
essere dimostrata: da una parte, la disciplinarietà delimita il dominio di competenza senza il quale la
conoscenza si fluidificherebbe e diventerebbe vaga; dall’altra parte, la disciplinarietà scopre, estrae o
costruisce un oggetto degno di interesse per lo studio scientifico […]. Tuttavia, l’istituzione delle discipline
comporta a sua volta un rischio, di iperspecializzazione del ricercatore e di reificazione dell’oggetto
studiato, per cui si rischia, nel momento in cui l’oggetto è percepito come una cosa in sé, di dimenticare che
esso è stato estratto o costruito. I legami e la solidarietà di questo oggetto con altri oggetti studiati da altre
discipline saranno dimenticati, così anche i legami e la solidarietà di questo oggetto con l’universo di cui
esso fa parte. I confini della disciplina, il suo linguaggio e i suoi particolari concetti isolano la disciplina dal
rapporto con le altre e dal rapporto con i problemi che sono a cavallo delle discipline. Lo spirito
iperdisciplinare rischia allora di strutturarsi come spirito di proprietà che proibisce, nel proprio ristretto
settore del sapere, ogni circolazione estranea.” (Morin, 1990, p. 63)

Comporre: dal latino cum ponere – porre insieme varie parti perché costituiscono un tutto organico – mettere
d’accordo – conciliare – integrare – far interagire – organizzare. Fare musica, improvvisare o progettare degli
ascolti con altre persone, sia in un contesto educativo, rieducativo che terapeutico, implica qualcosa di più
complesso, qualcosa che non è possibile controllare se non molto parzialmente, qualcosa di molto più
importante e delicato dei vari materiali, suoni, timbri, ritmi da utilizzare e da plasmare per creare un dato
percorso musicale. Sto parlando della composizione più importante e che sta prima di tutte le altre e che
riguarda tutti gli educatori, gli insegnanti, i musicisti e i musicoterapisti: comporre relazioni accoglienti che
è quello che ho cercato di fare nel mio lavoro in questi anni di ricerca-sperimentazione-scambio-confronto-
gioco. Desidererei che il nostro incontrarci futuro lo concretizzassimo come una composizione collettiva,
dove la dimensione immaginativa si sposi con quella razionale e con la dimensione etica ed estetica per far
nascere insieme, attraverso questo processo poietico, una “forma felice” provvisoria, “un’opera aperta” che
nello svolgersi del suo percorso e del suo divenire via via si trasformi grazie all’esperienza e alle curiosità di
tutti noi. Desidererei che tutti fossimo appassionati, capaci di nuotare contro corrente rispetto a “L’epoca
delle passioni tristi” che caratterizza questo tempo spassionato privo di ideologie, e un’epoca spassionata è
per forza di cose poco creativa, perché non si può progettare ed ideare il nuovo senza la forza della passione.
Con la consapevolezza della provvisorietà dei sistemi, mi riconosco in alcune idee, nate in questi ultimi
cent’anni, che si possono sintetizzare con parole che rimandano a macroconcetti come:

relativistico -sistemico – olistico – ecologico – complesso. Da questo insieme di sguardi, che si sono condensati nel
pensiero complesso emergono nuovi metodi e modelli di progettazione. Coloro che condividono questi
paradigmi cercano nella “struttura a rete” le interazioni sia dei microsistemi delle particelle, che della vita
organica, umana e sociale, ma anche nel macrosistema cosmo e trovano nessi e connessioni tra i vari ambiti
di osservazione. All’interno di questa corrente di ricerca c’è anche l’intento di integrare “il pensiero
antagonista
”, ossia di chi si riconosce nella continuità dell’approccio analitico cartesiano, che dà risalto alle
parti, ai ‘mattoni elementari’ e che viene definito: meccanicistico, riduzionistico, atomistico, deterministico,
dogmatico. Nella teoria della complessità l’idea accogliente che mette in relazione il complementare / il
concorrente / l’antagonista è il principio dialogico, che tende a connettere e a far interagire sia le logiche che
si completano che quelle che si escludono. Trovo molto bello questo frammento moriniano:
“Il pensiero complesso è animato da una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non frazionato,
non diviso, non riduzionista, e il riconoscimento del carattere incompiuto e incompleto di ogni conoscenza.
Potremmo dire che il cammino della conoscenza è per il pensiero complesso ciò che per Paul Valery era
l’elaborazione di un poema, qualcosa che non si porta a conclusione”. (Morin, Ciurana e Motta, 2003, p. 66,
trad. it. 2004)
Vi propongo come “sistema di sistemi” di riferimento il pensiero complesso che parte da logiche accoglienti
e fortemente presenti nella musicoterapia: la multicompetenza, la multidimensionalità, l’interazione tra
discipline linguaggi e saperi e quindi l’interdisciplinarità, la molteplicità … dove il verbo accogliere ‘gioca’
con cogliere, raccogliere, ricogliere e riaccogliere”.
Queste le premesse che direzioneranno i miei interventi e contributi nel procedere dei nostri incontri, che
potranno essere come questi dove io scrivo e tu, sconosciuto lettore incontri le mie parole, dove emergeranno
le nostre differenze, che sono il sale di qualsiasi dialogo , come le controproposte, le aree comuni, le
divergenze, le convergenze, gli aggiustamenti, i pensieri laterali e obliqui, che arricchiscono il punto di
osservazione, rinnovano i nostri sguardi, per magari farci ritornare sui propri passi, oppure ad andare avanti,
e lasciare morire un’idea perché la tua proposta è più efficace e più ‘giusta’, oppure perdersi per poi ritrovarsi
… così come accade quando la composizione è collettiva è diventa la sintesi di pensieri condivisi:
“Le idee devono decantare un po’, come il vino: solo se fai in questo modo riesci a distinguere ciò che è
buono davvero. Lasciare che le idee decantino significa fare lavoro d’équipe sul serio, perché vince l’ipotesi
migliore, da chiunque provenga. Si fa un gran parlare di teamwork, quando spesso non è altro che un
passaggio a cascata: uno fa una cosa, la passa a un altro che fa un’altra cosa con minori gradi di libertà,
poi lui la passa a un altro ancora con sempre minori gradi di libertà. Non è questo che intendo. Il lavoro di
équipe è quando lanci un’idea, ti ritorna, diventa un ping pong; lo si gioca in quattro in sei, in otto, a una
tale velocità che le palline si incrociano. Tutto si confonde. Quando alla fine l’oggetto è concepito, non
riesci più a capire chi ci ha messo che cosa.” (Piano, 1997, p. 17)


Ecco sinteticamente, l’architettura che desidererei avessero i nostri incontri sia digitali su qualche
piattaforma, ma sopratutto quelli analogici e dialogici “dal vivo” li da voi nella vostra bella Sicilia.

Neologismi utili: relianza e delianza


“Come dall’inizio, sotto l’effetto della deflagrazione originaria, l’universo tende a
disperdersi, le forze di relianza conducono una lotta, a nostro avviso patetica, contro
la dispersione, concentrando nuclei, atomi, stelle, galassie. Certo, le forze di relianza
sono minoritarie in confronto a quelle che separano, annichiliscono, disperdono.
Certo, le organizzazioni delle stelle fino alle organizzazioni degli organismi viventi
sono, a termine, condannate alla dispersione e alla morte conformemente al secondo
principio della termodinamica. Ma sono queste forze di relianza che, dopo i nuclei, gli
atomi, gli astri, hanno creato sulla Terra, la vita.” (Morin, 2004, trad. it., p. 18)
Edgar Morin ( 2004, p. 214) nel tomo 6 “Etica” de “Il Metodo” scrive: “La nozione di reliance colma un
vuoto concettuale attribuendo una natura sostantiva a ciò che era stato concepito solo come aggettivo, e
fornendo un carattere attivo a questo sostantivo. Relié (legato) è passivo, reliant (legante) è partecipante,
reliance (leganza) è attivante. Possiamo parlare di deliance (sleganza) per opporla a reliance. [In Italiano
preferiamo tradurre il neologismo francese reliance con ‘relianza’, in modo da mantenere il gioco di parole
tra relier (legare) e alliance (alleanza). NdT]”. In altri contesti la parola “deliance” è stato tradotta con un
nuovo neologismo ‘delianza‘.
Il termine relianza non è ancora presente nei dizionari italiani e in questo scritto lo userò con la connotazione
e le denotazioni che ha assunto nel dibattito psicosociologico e epistemologico della cultura umanistica
francese e belga. Nella lingua inglese il termine reliance assume invece significati diversi: dipendenza,
fiducia e non è direttamente in relazione con questo scritto, anche se il termine fiducia è fondamentale nella
relazione musicoterapeutica: aver fiducia degli altri, per gli altri, la fiducia che condivido con gli altri,
ispirare fiducia.
La prima volta – per mia conoscenza – che il termine reliance compare nel linguaggio psicosociale è in una
pubblicazione del sociologo belga Roger Clausse (1963), che in un suo lavoro, dove analizza il bisogno
sociale di informazione, attribuisce alla stampa una funzione di relianza sociale che definisce come
comunione umana, rottura dall’isolamento, ricerca di legami funzionali, surrogato dei legami primari. Per
questo autore le relazioni primarie sono distrutte dalla società di massa e l’informazione (e inizialmente
sopratutto la stampa) può avere una funzione “terapeutica” assolvendo al bisogno umano di appartenere ad
una comunità.
Un altro ricercatore belga, Marcel Bolle De Bal (1996), Presidente Onorario dell’Associazione Internazionale
dei Sociologi di Lingua Francese, ha sviluppato ulteriormente questo concetto, ripreso poi da Michel
Maffesoli (2007) e da Edgar Morin. Delianza e relianza sono due concetti inseparabili che caratterizzano
questo nostro tempo anche nel contesto sociale della cultura di massa che ha creato maggior isolamento e
solitudine: la modernità che slega, e poi nella fase della post-modernità che reagisce cercando di realizzare
nuove forme di aggregazione (Maffesoli, 1988): la post-modernità che collega.
Sappiamo che il pensiero scientifico occidentale per trecento anni si è sviluppato secondo il metodo
inaugurato da Descartes che scomponeva, isolava, divideva, le parti dal tutto. La rivoluzione del pensiero
scientifico, iniziata l’altro secolo, è caratterizzata dal passaggio dalla concezione meccanicistica,
riduzionistica, atomistica, inaugurata appunto da Cartesio, che separava e analizzava le parti di un sistema
per indagare i singoli elementi che costituiscono il tutto, al pensiero sistemico (L. Bertalanfly – N. Wiener –
G. Bateson – M. Mead – H. von Foerster – F.J. Varela – H.R. Maturana – E. Morin ) che ribalta
completamente il modello e il processo di conoscenza: tutti i sistemi viventi sono osservati e studiati come
totalità integrate dove le parti possono essere definite e assumere significato solo nei processi di interazione
delle loro connessioni e relazioni che un pattern di organizzazione plasma in un determinato contesto: nel
nostro caso una configurazione poietica di relazioni che caratterizza il “sistema” Triennio di Musicoterapia.
Questo spostamento di “sguardo” possiamo sintetizzarlo: dalle parti al tutto, dagli oggetti alle relazioni,
dalle strutture ai processi e questo cambiamento di paradigma ha determinato nuovi metodi che invece di
misurare le quantità e i “pesi” dei vari elementi (approccio quantitativo), tipico del pensiero riduttivo,
mappa le relazioni e studia i pattern, inaugurando così un processo che implica un approccio qualitativo.
Potremmo definire questo spostamento del processo scientifico in questi termini: dalla delianza cognitiva che
isola e separa, alla relianza cognitiva che crea legami e connette; potremmo ancora dire che dividere per
conoscere può essere una prima fase di ricerca che si completa solo con il processo che lega, intreccia e
collega e così facendo si complessifica: dopo la fase della scienza che sbriciola sta emergendo, non ancora
così presente, la nuova fase della scienza che ricompone.

Desidererei che il Corso triennale che sta per nascere sicuramente transdisciplinare, in opposizione al
modello riduzionista, orienti ad attivi la relianza cognitiva attraverso legami, intrecci e scambi tra diversi
campi e differenti aree scientifiche. in opposizione alla delianza cognitiva. implicita nel pensiero riduzioni
stico e che produce separazioni e dicotomie che molte volte generano quelle semplificazioni che un processo
formativo deve assolutamente evitare:
“Il pensiero complesso non disprezza ciò che è semplice, ma critica la semplificazione. Per questo la
complessità non è il contrario della semplificazione che non elimina neppure; la complessità è l’unione della
semplificazione e della complessità. La ricerca della complessità deve seguire i cammini della
semplificazione nella misura in cui il pensiero della complessità non esclude, ma al contrario integra, i
processi di disgiunzione – necessari per distinguere e analizzare – , di reificazione – indissociabili dalla
costituzione di oggetti ideali – , dall’astrazione – vale a dire di traduzione del reale in termini ideali. Tutti
questi processi devono però essere messi in gioco e in movimento accompagnati dal loro antidoto. In altri
termini, a differenza dei pensieri semplificatori che partono da un punto iniziale (elemento) e conducono a
un punto finale (principio), il pensiero di ciò che è complesso è un pensiero rotativo, spirale. La
disgiunzione deve essere completata dalla congiunzione e dalla transgiunzione: l’unificazione e
l’omogeneizzazione (riduzione) sono illusioni che escludono il rispetto delle diversità e delle eterogeneità; la
reificazione deve essere corretta dalla coscienza del fatto che gli oggetti sono co-prodotti dal nostro spirito e
dalla nostra immaginazione; si deve combattere l’astrazione ricordando che non si devono perdere durante
il cammino le forme e le esistenze fenomenologiche. Il pensiero complesso deve dunque realizzare la
rotazione dalla parte al tutto, dal tutto alla parte, dal molecolare al molare, dal molare al molecolare,
dall’oggetto al soggetto, dal soggetto all’oggetto.” (Morin, Ciurana e Motta, 2003, p. 67, trad. it. 2004)
Un progetto basato sulla complessità nella relianza, può trasformare lo sguardo di tutti gli “attori” di questa
“scena” e non solo quello del musicoterapista che sicuramente da queste interazioni interdisciplinari si
arricchisce di quella multicompetenza necessaria per un adeguato e sempre più consapevole intervento
musicoterapico. Questa relianza cognitiva riguarda ogni singolo docente sia dell’area musicoterapeutica sia
degli altri campi disciplinari, docente che oltre a scegliere le argomentazioni che prevede più efficaci della
propria disciplina per la formazione del musicoterapista, deve creativamente “immaginare il tutto”
analizzando e anche intuendo gli argomenti e i programmi degli altri docenti.


Prendersi cura delle persone e delle idee malate


Prendersi cura delle persone è il progetto specifico della musicoterapia, compito che non può essere separato
dal prendersi cura delle idee che sono altrettanto “malate” ed è proprio dall’intrecciarsi di questi gesti che si
può ricercare e riprogettare il presente futuro. Questo lavoro di “rinascita personale e collettiva” implica
ricongiunzioni e connessioni di quello che è stato separato in tutto il processo educativo e di formazione di
tutti noi e quindi anche di coloro che lavorano negli ospedali e nelle istituzioni a contatto con i malati e lo
svantaggio in genere: purtroppo ancora oggi in buona parte della scuola, di qualsiasi ordine e grado, il
percorso formativo è ancorato ad un sistema pedagogico legato al pensiero descartiano ancora dominante che
riduce, spezzetta, separa le discipline e questo insieme di isolamenti e di semplificazioni potremmo definirle
delianze formative:
“Non ci si rende ancora ben conto che la disgiunzione e il frazionamento delle conoscenze compromettono
non solo la possibilità di una conoscenza della conoscenza ma anche le nostre possibilità di conoscenza di
noi stessi e del mondo, provocando quella che Gusdorf giustamente chiama una ‘patologia del sapere’.”
(Morin, 1986, p. 9 trad. it. 2007)
Questa patologia del sapere è, potenzialmente, lontana dalla musicoterapia, che per la sua natura di
transdisciplina prepara i musicoterapisti ad una visione sistemica e complessa, attraverso una formazione
multidisciplinare, favorendo il pensiero di processo e il pensiero di rete che si oppongono a tutte quelle
separazioni, dicotomie e “schizofrenie” che la cultura occidentale, greco-giudaico-cristiana, ha purtroppo
elaborato in duemilacinquecento anni di storia.
Non è così per il programma di studi di molte figure che lavorano negli ospedali, Mariella Combi (2015)
nelle pagine dello stesso libro che sto coindividendo con voi: “Il percorso formativo del bio-medico prevede,
come sostiene Byron Good medico-antropologo della Scuola di Harvard, un addestramento a rendere il
corpo un oggetto, a spersonalizzarlo riducendolo alla sua fisicità per ricollocarlo dentro modelli clinici

specificamente progettati. L’apprendista medico acquisisce delle nuove forme di percezione e di modi per
descrivere i problemi del malato che, secondo Giovanni Pizza , modificano i suoi modi di vedere, parlare e
scrivere. Il medico si trova così su un piano diverso rispetto all’esperienza del malato: diventarne
consapevoli consente al primo di accostarsi al paziente, al suo ascolto, colmando quei vuoti che
l’incorporazione del sapere tecnico ha instaurato”
Invece la formazione del musicoterapista è caratterizzata da una competenza polidisciplinare che ricerca quei
legami che permettono una visione dell’altro come persona nella sua totalità-globalità, unicità e singolarità e
come individuo, termine che nel suo etimo – individuu(m) che non (in-) è divisibile ( dividuu(m) – implica la
non separabilità:
“Va ricordata a tale proposito la distinzione tra individuo, in possesso di un’identità precisa, capace di
costruire la propria storia e di partecipare con altri individui alla storia generale, e persona, capace di
operare identificazioni molteplici all’interno di una teatralità globale. L’individuo ha una funzione razionale,
la persona riveste ruoli emozionali.” (Maffesoli, 1996, p. 158 trad. it. 2000)


Ma questa patologia del sapere ricade non solo sulla formazione delle varie figure che lavorano in vari
ambiti: ospedalieri, educativi, riabilitativi e terapeutici…e sulla relazione in genere, non solo sulla
progettazione istituzionale di questi enti, ma sopratutto sui comportamenti che ricadono sia sui bambini per
arrivare alle persone anziane.
Per quel che riguarda ad esempio la dimensione del malato la concezione biomedica, che nonostante alcuni
sforzi isolati è ancora dominante, non ha ancora incontrato una visione sistemica del malato e della malattia,
che implica e prevede uno sguardo rivolto alla persona e all’individuo, e non al cliente-utente -paziente, nelle
sue componenti eco-bio-psico-sociali e non ultime spirituali.
Credo che dovremmo rielaborare e riattualizzare, contestualizzandole nel nostro tempo, alcune visioni
primitive che riguardavano il malato e la malattia:
“Presso i primitivi che conoscevano il corpo e non l’organismo, la malattia aveva un significato sociale, e
come tale era qualcosa che si poteva scambiare nel gruppo. J. Poillon ci informa, ad esempio, che presso i
Dangaleat la malattia aveva un valore iniziatico; non si poteva far parte del gruppo, né acquisire una
qualsiasi posizione sociale se prima non si era stati ammalati. Come segno di elezione nel gruppo, la
malattia non era vissuta individualmente, ma scambiata come tutte le cose in quell’ordine simbolico che
faceva di ogni evento una relazione sociale ricca di senso. Il processo di guarigione, poi, e questo non solo
presso i Dangaleat ma in tutte le società primitive, non si svolgeva come oggi da noi in quel rapporto duale,
ma non reciproco, che si stabilisce tra medico e paziente, ma in uno spazio più ampio in cui tutto il gruppo
prendeva parte alla cura distribuendosi intorno al male, concepito non come una lesione organica che
investe un individuo, ma come una rottura, uno squilibrio nello scambio sociale.” (Galimberti, 1983, p. 55)
Paradossalmente i primitivi, in queste manifestazioni sociali relative alla malattia, avevano una concezione
“proto-politica” più avanzata della nostra perché con modalità prescientifiche cercavano di “convertire i
problemi individuali in tematiche pubbliche, gli interessi comuni in diritti e doveri individuali” (Bauman ,
2008, p.18) che è uno dei compiti più importanti dell’azione politica.
L’inserimento del musicoterapeuta all’interno dell’equipe ospedaliera, oltre ad apportare il contributo della
propria competenza terapeutica specifica, dovrebbe favorire e stimolare tutto quel lento lavoro necessario per
il superamento della delianza istituzionale del malato ospedalizzato e della sua famiglia, che implica oltre
alle ansie e alle paure, solitudine e isolamento sociale, isolamento che accade proprio quando la persona e la
famiglia avrebbero la necessità della maggior relianza umana e istituzionale possibile:


“Intermedia tra la vita e la morte, la malattia, nella sua ambivalenza di prolungamento della vita e di
anticipazione della morte, è oggi diventata l’oggetto specifico di quel sapere medico che è nato quando,
contrapponendo la vita alla morte, ha interrotto l’ambivalenza del loro scambio simbolico nell’equivalenza
generale della salute. Allora il corpo del malato, da soggetto delle sedute sciamaniche e delle pratiche
prescientifiche, è diventato supporto di quella nuova realtà, la malattia, che il sapere medico ha prodotto
come oggetto specifico della sua applicazione. Per questo lo sguardo medico non incontra il malato ma la
sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia ma una patologia, dove la soggettività del paziente
scompare dietro l’oggettività di segni sintomatici che non rinviano a un ambiente, a un modo di vivere, a una
serie di abitudini contratte, ma a un quadro clinico, dove le differenze individuali, che si ripercuotono
nell’evoluzione della malattia, scompaiono in quella grammatica dei sintomi con cui il medico classifica le
entità morbose, come il botanico le piante. Espropriato della sua malattia, che nonostante tutto è pur sempre
un modo con cui, in circostanze sfavorevoli, un corpo cerca di sopravvivere, il malato si trova letteralmente
‘nelle mani del medico’ che, agendo come funzionario della scienza, ignora il corpo perché conosce solo

l’organismo. Ridotto a organismo, il corpo del malato non ha più posto nella società e perciò viene trasferito
in quell’ambiente tecnico, l’ospedale, dove le comunità che si creano sono quelle imposte dagli organi da
guarire. Deportato in uno spazio-tempo dove tutto funziona sotto la minaccia della morte, il paziente si
percepisce, rispetto alla sua malattia, come un fatto esteriore, perché non solo il mondo della sua vita si
interrompe, ma, con le sue abitudini, le sue disposizioni, la sua età, i suoi affetti, lui stesso diventa un fatto
accidentale rispetto alla letteratura medica che, come una saracinesca, si chiude sul suo corpo per aprirsi
sul suo organismo che, da prodotto metodologico di una scienza, assurge alla dignità ontologica
dell’esistenza.” (Galimberti, 1992, pp. 132-133)


Lo sguardo sistemico-complesso implica una visione sia della salute che della malattia, e quindi dell’ aver
cura e prendersi cura, policentrico, polisemico e polidirezionale proprio perché il suo modello include le
componenti eco-bio-psico-social e spirituoali implicite in ogni singola esistenza:
“Nel modello biomedico, la salute è definita come l’assenza di malattia e la malattia come malfunzionamento
dei meccanismi biologici. Una nuova concezione della salute, basata sulla visione sistemica della vita,
comincia con il comprendere che è impossibile dare una definizione precisa della salute. La ragione è che la
salute è un’esperienza ampiamente soggettiva le cui qualità possono essere conosciute intuitivamente, ma
non possono mai essere descritte o quantificate in modo esaustivo. […] Il pensiero sistemico è processuale;
quindi la visione sistemica intende la salute come un processo in divenire. Piuttosto che definire la salute
come uno stato permanente di perfetto benessere, la concezione sistemica della salute implica attività e
cambiamenti continui, che riflettono la risposta creativa dell’organismo alle sfide ambientali. Visto che la
condizione di una persona dipenderà sempre dall’ambiente naturale e sociale di riferimento, non può
esistere alcun livello assoluto di salute, indipendentemente dall’ambiente in cui si vive. […] Ciò significa che
alla dimensione biologica, cognitiva, sociale ed ecologica della vita, corrispondono altrettante dimensioni
della salute.[…] Un sistema vivente va inteso come un network autogenerato e auto-organizzato che mostra
un alto grado di stabilità. Tale stabilità è estremamente dinamica ed è caratterizzata da fluttuazioni
continue, multiple e interdipendenti. Tutte le variabili di un sistema vivente fluttuano continuamente entro
dei limiti di tolleranza: quanto più lo stato del sistema è dinamico, tanto maggiore sarà la sua plasticità.
Qualunque sia la natura di tale flessibilità – fisica, mentale, sociale, tecnologica o economica – per il
sistema è essenziale la capacità di adattarsi ai cambiamenti ambientali: perdita di flessibilità significa
perdita di salute. Inoltre il sistema vivente risponde ai disturbi del suo ambiente in modo cognitivo e
autonomo. I cambiamenti strutturali che ne derivano possono essere cambiamenti di autorinnovamento o
cambiamenti di sviluppo in cui emergono nuove forme di ordine. Questa visione dei sistemi viventi
suggerisce che la nozione di bilanciamento dinamico è un concetto utile per definire la salute. Tale stato di
bilanciamento non è un equilibrio statico ma piuttosto un pattern flessibile di fluttuazioni. Tenendo in mente
questo significato di ‘equilibrio dinamico’ la salute può essere definita come:’Uno stato di benessere
conseguenza di un equilibrio dinamico che coinvolge aspetti fisici e psicologici dell’organismo, così come le
sue interazioni con l’ambiente naturale e sociale.’ “ (Capra e Luisi, 2014, pp. 415-416, trad. it. 2014)
In questa prospettiva muta radicalmente anche il concetto di malattia che viene interpretata come “ […] una
conseguenza del disequilibrio e della disarmonia che possono sorgere a diversi livelli dell’organismo e
possono generare sintomi di natura fisica, psicologica e sociale.” (Capra e Luisi, 2014, p. 421)


Relianze musicali e musicoterapiche


Nel processo di formazione permanente, per il musicoterapista è necessario abitare la musica come gesto
quotidiano polidirezionale, sistemico e complesso che implica una relianza disciplinare musicale specifica,
relianza che sottende una policompetenza, sia della componente musicologica che riguarda discipline come
l’etnomusicologia, la semiotica e la pedagogia musicale, il fonosimbolismo, la psicologia e la psicanalisi
della musica, l’estetica…, sia dell’ascolto e della pratica vocale e strumentale.
Quest’ultimo aspetto è fondamentale nella relazione musicoterapica e quindi deve prevedere il costante
approfondimento sia del continuo trasformarsi, evolversi, involversi, delle musiche che continuano a nascere
nella contemporaneità in tutti i suoi variegati generi e stili e della loro dimensione storica, sia nella
appassionata e continua pratica vocale e strumentale che implica molte capacità specifiche che devono essere
costantemente sviluppate e che molto sinteticamente si possono riassumere in:

capacità esecutive – compositive (comporre con, comporre per) – improvvisative – capacità di interazione con
altri linguaggi espressivi e non ultime tecnologiche. In questo intreccio tra discipline saperi e linguaggi si
sviluppa la formazione e la competenza musicale, musicologica e musicoterapica del musicoterapista, che
non deve assolutamente perdere di vista il suo centro che è la musica e la sua personale musicalità.
Condivido pienamente questo pensiero di Vinko Globokar, compositore di musica contemporanea e
trombonista:

“Io non so cos’è la musica e forse è questa la ragione per cui la faccio. So invece che tutto può
diventare musica, essere trasformato in musica. Diffido delle persone che sanno esattamente dove inizia e
dove finisce la musica”.

Per il musicoterapista questa citazione potrebbe essere contraffatta in :

“Io non so che cos’è la musicoterapia e forse è questa la ragione per cui praticandola sarò permanentemente in
formazione. So invece che tutte le musiche, in interazione con molte discipline e con molti linguaggi
espressivi, possono diventare musicoterapia. Diffido delle persone che sanno esattamente dove inizia e dove
finisce la musicoterapia.”

Questo insieme di intrecci, sinergie e interazioni tra discipline e linguaggi
potremmo considerarli come un processo di relianza sistemico-cognitivo-transdisciplinare.
Spostiamoci su un altro livello che implica legami, alleanze e scambi sul piano delle relazione. Potremmo
ipotizzare che tutte le persone che saranno coinvolte in questo percorso potranno costituire una “koinè di
ricerca
” riferita alla musicoterapia se sapranno amplificare la coappartenenza ad un progetto, che avrà anche
come compito di stimolare intrecci relazionali dove ciascuno possa comunicare chi è, al di là degli aspetti
professionali e dei ruoli, ma come persona ed individuo che coesiste con gli altri in una scena comune, per
stimolare flussi comunicativi orizzontali . Un gruppo di ricerca potrebbe avere esiti simili a quelli di una
festa, dove un collettivo di individualità condivide con piacere i sapori, gli aromi, i profumi della propria
esperienza-esistenza per allargare e amplificare i propri confini di conoscenza da proiettare ciascuno nel
proprio lavoro anche questo ricondiviso.
Questo insieme di incontri, di eventi e di vissuti potenzialmente creeranno legami e connessioni riferiti
all’intero gruppo di docenti e discenti che potranno realizzare un particolare e unico processo di relianza
micro-sociale. Questa futura rete di persone, che lavoreranno in differenti istituzioni, potranno sviluppare e
creare una relianza musicoterapica specifica e il futuro ci dirà se oltre la formazione individuale il gruppo
saprà mettere in moto questo importante legame collettivo.
Concludo con un pensiero sulla musica, un breve frammento scritto da Maria Zambrano, filosofa spagnola
che ci ha regalato pensieri, idee e libri luminosi:
“La musica adempie, si adempie, e noi ci adempiamo ascoltandola. Colui che la reca che è, chi è? Un essere
remoto, una pura attualità del sempre. E appare impensabile che qualche volta se ne vada, che qualche
volta non ci sia stato. Tornerà. Tornerà sempre colui che fa la musica di quest’istante. Tornerà questa
musica che si approssima di più all’origine, al principio, quando rivela insieme l’istante presente. Dura un
istante tutta. Dura un istante tutta la musica. Un istante di eternità, come il morire, come il nascere, come
l’amare. “ (Zambrano, 1977, pp. 101-102, trad. it. 1991)


Bibliografia
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CONNESSIONI – LEGAMI – ALLEANZE
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Musicista / Formatore

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